Dedico questa Newsletter naturalmente a voi, cari ed entusiasti lettori, e al nostro esserci ritrovati sintonizzati nell’arte di riflettere e di avviare una conversazione interiore con l’enantiodromia.
Tale affascinante termine che deriva dal greco, indica un concetto filosofico composto rispettivamente dalla parola enantios: opposti  e dalla parola dromos: corsa; letteralmente indica pertanto “la corsa agli opposti”.
Eraclito nel V sec. A.C., aveva chiamato enantiodromia la convergenza reciproca dei contrari, ovvero il loro sfociare l’uno nell’altro, alimentando la cosidetta “legge di ricorso agli estremi”. In tale convergenza si poteva affermare il principio della mutevolezza della realtà percependone il continuo divenire.
Scriveva Eraclito nei Frammenti: “Ciò che si oppone conviene, e dalle cose che differiscono si genera l’armonia più bella, e tutte le cose nascono secondo gara e contesa. Essi gli ignoranti non capiscono che ciò che è differente concorda con se’ medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira.”

Si pensi a quanto risulti a ciascuno di noi familiare l’attraversare delle fasi in cui si assiste al passaggio dall’attrazione alla repulsione. In tali fasi spesso si viene accompagnati da un desiderio compulsivo di possedere e di conquistare e/o da un sentito bisogno di allontanarsi e di lasciare andare. La nostra illuminante guida Patañjali negli Yoga Sutra (II.2), scruta in profondità i cinque klesha, le afflizioni, tra le quali si annoverano le già citate raga: l’attrazione/l’attaccamento e dvesa: la repulsione/l’avversione che si accompagnano ad avidya: l’ignoranza, asmita: l’ego e abhinivesa: la paura della morte e della caducità.
Ciascuna afflizione può essere più o meno caratterizzata da dei forti condizionamenti che inducono gli esseri umani a perseguirle e/o a precipitare nell’esatto contrario. Oltre alla categoria in sé, l’enantiodromia può accompagnare l’attitudine che la permea; a titolo esemplificativo si può pensare alla caparbietà con cui ci si può lasciare affliggere dai klesha vis a vis un lento e graduale indebolimento di tale forma di condizionamento. Come ci si può quindi rivolgere alla danza che sottende il movimento delle coppie degli opposti, dvandva, al fine di non lasciarsi travolgere da un eccesso di possessività nel protrarsi verso l’uno a discapito dell’altro?

Lo Yoga si rivela come lo strumento di equilibrio e di armonia per eccellenza, grazie alla sua incommensurabile capacità di insegnarci l’arte del distacco emotivo vairagya nonché la tecnica dello sguardo discriminante viveka.
I praticanti, anche coloro che sono all’inizio del proprio sentiero di ricerca, non possono non constatare come l’auto-osservazione svolta durante lo svolgimento delle asana e coniugata con il sentire e il visualizzare il proprio “respirare”, induca ad assumere un benefico modus operandi che si articola nelle azioni quotidiane.
Grazie allo Yoga, è possibile estrapolare una funzione regolatrice e di armonizzazione degli opposti dall’enantiodromia; tale funzione risulta presente non a caso anche in quel misterioso e profondo substrato di significati e di rivelazioni che sottendono la psicologia analitica junghiana.
Prendendo coscienza di quanto vibra nell’inconscio, e di quello che ciascuno riformula dentro di sé, attraverso la danza delle posture coniugate con le tecniche di pranayama, si acquisisce la capacità di dialogare con il turbinio delle emozioni latenti, piuttosto che con il silenzio degli elementi di intimità e di introversione. La sfera più estroversa la quale ha nell’inconscio latente e poco sviluppata la sua parte introversa, incontra la sfera introversa la quale ha nell’inconscio poco nutrita e sviluppata la sua parte estroversa. I meccanismi di attrazione e di repulsione, raga/dvesa, che influenzano rispettivamente le tendenze degli estroversi e degli introversi, conducono questi ultimi reciprocamente a temersi; hinc ognuno di noi tende a reprimere nell’inconscio il proprio opposto!

Ricollegandosi alla enantiodromia, Jung nel testo “Psicologia dell’Inconscio” (1917-1943), ha approfondito la “teoria degli opposti”, secondo la quale gli esseri umani sono lacerati dall’alternarsi delle coppie di contrari: quanto più un individuo si spinge verso un estremo identificandosi con lo stesso, tanto più nel corso del tempo si ritrova a confrontarsi con la dimensione opposta. Ne consegue che l’unilaterale privilegiare solo l’aspetto conscio di una determinata situazione, finirà per fare irrompere il suo rispettivo lato inconscio.
Lo psicoanalista svizzero ha affermato che si può essere posseduti da una qualche forma istintuale e/o da un complesso di rappresentazioni i quali concentrando un’enorme quantità di energia psichica, possono costringere l’io, a sottomettersi-vi, senza che venga avviato un adeguato processo di integrazione: Generalmente l’Io è talmente attratto da questo punto focale carico di energia che si identifica con esso e crede di non avere più nessun altro desiderio o bisogno. La conseguenza è morbosa: una follia, una monomania o un invasamento, un’estrema unilateralità che minaccia seriamente l’equilibrio psichico. L’enantiodromia, sempre in agguato quando un qualche movimento si impone con forza indiscutibile, non risolve però il problema, anzi è altrettanto cieca nella sua disorganizzazione come nella sua organizzazione”
Gli elementi consci e inconsci se non condotti verso una unità feconda possono provocare degli effetti laceranti sulla psiche, generando i turbamenti dell’anima. Jung avverte che “alla legge crudele dell’enantiodromia sfugge solo colui che sa differenziarsi dall’inconscio, non rimuovendolo (altrimenti ne sarebbe comunque afferrato alle spalle) ma ponendolo chiaramente dinnanzi al proprio sguardo e osservandolo come una entità diversa da sé”.
E’ grazie al processo di individuazione che il Sé può stabilirsi e agire come una vera e propria forma di integrazione consapevole capace di inglobare anche quello che viene concepito come negativo e/o non tollerabile.
Il Sé è una entità sovraordinata all’io e ne diviene il suo principio regolatore; Il Sé appare come l’archetipo di quell’ordine necessario alla psiche per contemplare una vera e propria complexio oppositorum. Il Sé appare come un variopinto mandale; esso stesso si manifesta come l’archetipo della totalità da integrare! Ed ecco che accogliendo sia la debolezza implicita nella forza che la forza implicita nella debolezza, e contemplando sia l’umbra solis che il sol niger, a poco a poco grazie alla presenza cosciente viene ad essere re-integrata l’ombra, neutralizzandone gli effetti perturbativi.
A tal proposito appaiono così illuminanti e fonte di ispirazione i versi del Capitolo II della Bhagavad Gita; in particolare il sutra 55: “Il Signore beato disse: “Partha, quando l’essere si libera da ogni desiderio mondano generato dalla speculazione mentale e quando la sua mente trova soddisfazione soltanto dal Sé (Atman), significa che si trova nella pura coscienza. Quando lo yogi giunge con la pratica dello Yoga a regolare le attività della mente, e libero da ogni desiderio egoico, si situa nel sé, si dice che abbia raggiunto la perfezione nello Yoga”.
Queste parole invitano ad un continuativo e duraturo impegno nel viaggio che conduce alla auto-realizzazione…Cerchiamo di perseguire Swarupa Avasthanam, ovvero di percepire la stabilità della nostra natura spirituale impegnandoci a rigenerarla e a nutrirla.
L’Atman e il processo di individuazione junghiano si incontrano quasi per incanto, orientandoci verso il riconoscimento delle polarizzazioni; al tempo stesso ci aiutano ad alimentare un incontro collaborativo tra la sfera conscia e quella inconscia, contribuendo ad un ampliamento dei significati esistenziali più profondi.

 

Hari Om Tat Sat
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