Dedico questa Newsletter naturalmente a voi, cari ed entusiasti lettori, e al nostro esserci ritrovati sintonizzati nell’arte di riflettere e di avviare una conversazione interiore con l’enantiodromia.
Tale affascinante termine che deriva dal greco, indica un concetto filosofico composto rispettivamente dalla parola enantios: opposti  e dalla parola dromos: corsa; letteralmente indica pertanto “la corsa agli opposti”.
Eraclito nel V sec. A.C., aveva chiamato enantiodromia la convergenza reciproca dei contrari, ovvero il loro sfociare l’uno nell’altro, alimentando la cosidetta “legge di ricorso agli estremi”. In tale convergenza si poteva affermare il principio della mutevolezza della realtà percependone il continuo divenire.
Scriveva Eraclito nei Frammenti: “Ciò che si oppone conviene, e dalle cose che differiscono si genera l’armonia più bella, e tutte le cose nascono secondo gara e contesa. Essi gli ignoranti non capiscono che ciò che è differente concorda con se’ medesimo: armonia di contrari, come l’armonia dell’arco e della lira.”

Si pensi a quanto risulti a ciascuno di noi familiare l’attraversare delle fasi in cui si assiste al passaggio dall’attrazione alla repulsione. In tali fasi spesso si viene accompagnati da un desiderio compulsivo di possedere e di conquistare e/o da un sentito bisogno di allontanarsi e di lasciare andare. La nostra illuminante guida Patañjali negli Yoga Sutra (II.2), scruta in profondità i cinque klesha, le afflizioni, tra le quali si annoverano le già citate raga: l’attrazione/l’attaccamento e dvesa: la repulsione/l’avversione che si accompagnano ad avidya: l’ignoranza, asmita: l’ego e abhinivesa: la paura della morte e della caducità.
Ciascuna afflizione può essere più o meno caratterizzata da dei forti condizionamenti che inducono gli esseri umani a perseguirle e/o a precipitare nell’esatto contrario. Oltre alla categoria in sé, l’enantiodromia può accompagnare l’attitudine che la permea; a titolo esemplificativo si può pensare alla caparbietà con cui ci si può lasciare affliggere dai klesha vis a vis un lento e graduale indebolimento di tale forma di condizionamento. Come ci si può quindi rivolgere alla danza che sottende il movimento delle coppie degli opposti, dvandva, al fine di non lasciarsi travolgere da un eccesso di possessività nel protrarsi verso l’uno a discapito dell’altro?

Lo Yoga si rivela come lo strumento di equilibrio e di armonia per eccellenza, grazie alla sua incommensurabile capacità di insegnarci l’arte del distacco emotivo vairagya nonché la tecnica dello sguardo discriminante viveka.
I praticanti, anche coloro che sono all’inizio del proprio sentiero di ricerca, non possono non constatare come l’auto-osservazione svolta durante lo svolgimento delle asana e coniugata con il sentire e il visualizzare il proprio “respirare”, induca ad assumere un benefico modus operandi che si articola nelle azioni quotidiane.
Grazie allo Yoga, è possibile estrapolare una funzione regolatrice e di armonizzazione degli opposti dall’enantiodromia; tale funzione risulta presente non a caso anche in quel misterioso e profondo substrato di significati e di rivelazioni che sottendono la psicologia analitica junghiana.
Prendendo coscienza di quanto vibra nell’inconscio, e di quello che ciascuno riformula dentro di sé, attraverso la danza delle posture coniugate con le tecniche di pranayama, si acquisisce la capacità di dialogare con il turbinio delle emozioni latenti, piuttosto che con il silenzio degli elementi di intimità e di introversione. La sfera più estroversa la quale ha nell’inconscio latente e poco sviluppata la sua parte introversa, incontra la sfera introversa la quale ha nell’inconscio poco nutrita e sviluppata la sua parte estroversa. I meccanismi di attrazione e di repulsione, raga/dvesa, che influenzano rispettivamente le tendenze degli estroversi e degli introversi, conducono questi ultimi reciprocamente a temersi; hinc ognuno di noi tende a reprimere nell’inconscio il proprio opposto!

Ricollegandosi alla enantiodromia, Jung nel testo “Psicologia dell’Inconscio” (1917-1943), ha approfondito la “teoria degli opposti”, secondo la quale gli esseri umani sono lacerati dall’alternarsi delle coppie di contrari: quanto più un individuo si spinge verso un estremo identificandosi con lo stesso, tanto più nel corso del tempo si ritrova a confrontarsi con la dimensione opposta. Ne consegue che l’unilaterale privilegiare solo l’aspetto conscio di una determinata situazione, finirà per fare irrompere il suo rispettivo lato inconscio.
Lo psicoanalista svizzero ha affermato che si può essere posseduti da una qualche forma istintuale e/o da un complesso di rappresentazioni i quali concentrando un’enorme quantità di energia psichica, possono costringere l’io, a sottomettersi-vi, senza che venga avviato un adeguato processo di integrazione: Generalmente l’Io è talmente attratto da questo punto focale carico di energia che si identifica con esso e crede di non avere più nessun altro desiderio o bisogno. La conseguenza è morbosa: una follia, una monomania o un invasamento, un’estrema unilateralità che minaccia seriamente l’equilibrio psichico. L’enantiodromia, sempre in agguato quando un qualche movimento si impone con forza indiscutibile, non risolve però il problema, anzi è altrettanto cieca nella sua disorganizzazione come nella sua organizzazione”
Gli elementi consci e inconsci se non condotti verso una unità feconda possono provocare degli effetti laceranti sulla psiche, generando i turbamenti dell’anima. Jung avverte che “alla legge crudele dell’enantiodromia sfugge solo colui che sa differenziarsi dall’inconscio, non rimuovendolo (altrimenti ne sarebbe comunque afferrato alle spalle) ma ponendolo chiaramente dinnanzi al proprio sguardo e osservandolo come una entità diversa da sé”.
E’ grazie al processo di individuazione che il Sé può stabilirsi e agire come una vera e propria forma di integrazione consapevole capace di inglobare anche quello che viene concepito come negativo e/o non tollerabile.
Il Sé è una entità sovraordinata all’io e ne diviene il suo principio regolatore; Il Sé appare come l’archetipo di quell’ordine necessario alla psiche per contemplare una vera e propria complexio oppositorum. Il Sé appare come un variopinto mandale; esso stesso si manifesta come l’archetipo della totalità da integrare! Ed ecco che accogliendo sia la debolezza implicita nella forza che la forza implicita nella debolezza, e contemplando sia l’umbra solis che il sol niger, a poco a poco grazie alla presenza cosciente viene ad essere re-integrata l’ombra, neutralizzandone gli effetti perturbativi.
A tal proposito appaiono così illuminanti e fonte di ispirazione i versi del Capitolo II della Bhagavad Gita; in particolare il sutra 55: “Il Signore beato disse: “Partha, quando l’essere si libera da ogni desiderio mondano generato dalla speculazione mentale e quando la sua mente trova soddisfazione soltanto dal Sé (Atman), significa che si trova nella pura coscienza. Quando lo yogi giunge con la pratica dello Yoga a regolare le attività della mente, e libero da ogni desiderio egoico, si situa nel sé, si dice che abbia raggiunto la perfezione nello Yoga”.
Queste parole invitano ad un continuativo e duraturo impegno nel viaggio che conduce alla auto-realizzazione…Cerchiamo di perseguire Swarupa Avasthanam, ovvero di percepire la stabilità della nostra natura spirituale impegnandoci a rigenerarla e a nutrirla.
L’Atman e il processo di individuazione junghiano si incontrano quasi per incanto, orientandoci verso il riconoscimento delle polarizzazioni; al tempo stesso ci aiutano ad alimentare un incontro collaborativo tra la sfera conscia e quella inconscia, contribuendo ad un ampliamento dei significati esistenziali più profondi.

 

Hari Om Tat Sat
Gaia

Gennaio-2021-newsletter-studio-Jyotir

E’ iniziato il 2021 ed eccoci ritrovati in occasione di una nuova Newsletter che spero possa farci compagnia e aggregarci in un dialogo comune, nell’attesa di ri-incontrarci dal vivo.
Sin dai primi giorni dell’anno, due parole enigmatiche e affascinanti hanno iniziato a scorrere nelle mie riflessioni e ad apparire nei miei sogni; ho deciso pertanto di lasciarle confluire in questo breve testo, in tutta la loro pienezza semantica e nelle suggestioni che evocano.
Si tratta della Epifania e della Ierofania; entrambi i termini condividono la radice etimologica greca “phainein” = “mostrare” che nella parola Epifania si congiunge con “epifaneia”, ovvero la “rivelazione divina” e nella parola Ierofania si unisce a “hierós”, ovvero il “sacro”.

Lo Yoga strumento di unione tra la sfera umana e quella divina – espressa a titolo esemplificativo dal chin mudra che attuiamo in alcune tecniche di Pranayama unendo il dito pollice e il dito indice della mano destra – può altresì rappresentare un trait d’union tra l’Epifania, la Ierofania e i nostri vissuti di uomini itineranti “nel mezzo del cammin di nostra vita”.
Credo fermamente che chiunque si dedichi alla pratica yogica con costanza e con dedizione, ispirandosi ad abhyasa, possa realizzare quanto essa stessa contribuisca giorno per giorno ad innalzare le rispettive sensibilità e attenzioni sia verso il substrato fenomenico sia verso quello che risulta più nascosto e meno apparente (noumeno).
Grazie e attraverso lo Yoga si imparano a saper cogliere e ad accogliere con maestria quei messaggi velati e misteriosi che la realtà trasmette sotto forma di segni, di sintomi, di coincidenze e di avvertimenti; il tutto velato da un avvolgente processo di sincronicità…Grazie e attraverso lo Yoga ci auto-educhiamo al fine di porci in un atteggiamento di puro e incondizionato ascolto di ciò che la coscienza cosmica continua a rivelarci.
Nelle sue Tavistock Lectures del 1935, Jung rispondendo ad una domanda sul parallelismo psicofisico affermava: “Il corpo e lo spirito sono due aspetti dell’essere umano, e ciò è tutto ciò che noi sappiamo. Per questa ragione preferisco dire che le due cose sopravvengono assieme in un modo misterioso restandone qui, perchè non si possono immaginare le due cose come una sola. Per il mio uso personale, ho concepito un principio che deve mostrare questo fatto di essere assieme, affermo che lo strano principio della sincronicità agisce nel mondo quando certe cose si producono in un modo più o meno simultaneo. comportandosi come se fossero la stessa cosa, pur non essendo tali dal nostro punto di vista.

Come ha affermato il maestro spirituale Marco Ferrini, Matsyavatara Das, in un suo illuminante seminario svoltosi tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021 in merito alle astensioni e alle prescrizioni descritte da Patanjali nel celebre trattato degli Yoga Sutra, denominate rispettivamente Yama e Niyama, la Chandogya Upanishad appare in tutta la sua profondità di contenuti e di suoni sanscriti, come un esempio supremo di Ierofania.
La Chandogya una delle più antiche Upanishad risalente all’VIII a.c., appartiene al Samaveda, il Veda dei canti; prende il suo nome da Chandoga termine che designa “colui che canta gli inni sacri, i chandas”. Tali inni producono degli effetti che alimentano delle corrispondenze con i livelli superiori della coscienza; intimamente legati ai vissuti esistenziali tessono delle relazioni con i “loca supera”, i luoghi celestiali.
Si dispiega così dinnanzi ai nostri drishti uno spazio mistico caratterizzato dai diversi gradi di vibrazione e di condensazione; lo spazio upanishadico diventa esso stesso il trasmettitore privilegiato di verità incommensurabili nonché un nobile veicolo ierofanico, in cui Bhur, Bhuva e Sva, il piano terreste, quello celestiale e quello spirituale vibrano vicendevolmente! 

Sin dal periodo paleolitico l’Homo sapiens ha dimostrato di saper essere un Homo Religiosus capace di vivere una esperienza esistenziale del sacro. E si sono susseguiti i secoli duranti i quali i diversi popoli della terra dinnanzi alla manifestazione del sacro sono stati guidati e accomunati da un certo grado di stupor, lo stupore primordiale, misto ad un timore reverenziale…
Non possiamo non riconoscere che il sacro ci unisce; il sacro rivelato ci pone nella condizione di vivere con sacralità il divino manifesto; funge da sigillo possente per lo stesso, alla stregua del nostro inchino simbolico nella postura di yogamudrasana
L’esperire un intangibile sussurro e/o l’incipit di un canto sacro che si trasforma in una sinfonia percepibile dai nostri cinque organi sensoriali jnana indriya, alimenta delle danze ritmiche nella dimensione inconscia le quali tendono a destrutturare e a dematerializzare quanto reso pocanzi tangibile…e in quel soffio che si incammina verso il non manifesto (aviakta) la preghiera e la fede rendono i nostri credi immortali, perché immortale è la nostra anima!

E’ interessante sottolineare come il filosofo orientalista Mircea Eliade affermi come ogni ierofania, anche la più elementare, ponga in essere la coesistenza di due essenze opposte quali il sacro e il profano e lo spirito e la materia: “essa stessa rivela una paradossale coincidenza dell’essere e del non-essere, dell’assoluto e del relativo, dell’eterno e del divenire” (tratto dal testo “Trattato della storia delle religioni”, pag. 31). Lo storico delle religioni prosegue affermando che “l’irruzione del sacro ha come conseguenza l’apertura dello spazio profano umano ad un mondo trascendente nonché la rottura del flusso normale del tempo per essere ricondotti al tempo sacro dei primordi” (tratto dal testo “Il sacro e il profano”).
L’irruzione del sacro apre pertanto la via di comunicazione tra i livelli cosmici quali la terra e il cielo, ontologicamente facilitando il passaggio dall’uno all’altro.

Non posso concludere la Newsletter se non con l’esortazione di sentirci parte integrante di una unità sistemica grazie alla quale danziamo, viviamo e cantiamo al ritmo dell’Udghita, la sacra sillaba Om.
Come afferma il meraviglioso maestro Marco Ferrini “l’importanza donata al canto liturgico che accompagna la pratica rituale deriva dalla consapevolezza che solo colui che è cosciente della sua sacralità, potrà cogliere il vero frutto del sacrificio” (tratto dal testo “Raccolta di Upanishad vediche”, pag. 99).
Esercitiamoci pertanto nell’arte di diventare sempre più consapevoli in merito alla sacralità del canto dell’Om, alla sacralità delle nostre buone e generose azioni, alla sacralità delle nostre più nobili intenzioni per fortificare e far risplendere sempre di più la nostra sintonizzazione con il divino!
La Ierofania si immerge nell’Epifania ed entrambi si fondono all’unisono con lo Yoga, rivelandoci Sat Chit Ananda!

Prajapati covò i mondi. Di questi, covati, estrasse l’essenza: il fuoco dalla terra,
il vento dall’atmosfera, il sole dal cielo. Egli covò queste tre divinità.
Di queste tre, covate, estrasse l’essenza: i versi del Rigveda dal fuoco,
le formule sacrificali del Yajurveda dal vento, le melodie del Samaveda dal sole.
(Chandogya Upanishad, IV.17.1-2)

  Hari Om Tat Sat
Gaia

Desidero dedicare la Newsletter dei mesi di Ottobre e di Novembre alla Contemplazione della Natura.
Nel periodo storico che stiamo vivendo e nell’atto di esperire una seconda ondata pandemica legata al Covid, molti paradigmi acquisiti sono stati messi in discussione. Paure, timori, e scetticismo verso delle manovre risolutive salvifiche si proiettano nelle nostre vite consce e inconsce immessi in un circolo mediatico che spesso ci fagocita e ci sovrasta, con il rischio di inibire il nostro discernimento e la nostra capacità di analisi.
Come poter convivere in modo yogico con tale scenario? Come riuscire a raggiungere uno stato di serenità trasmettendolo anche a chi si sente indifeso e incapace di reagire?
Si potrebbe iniziare a trasformare la nostra percezione di quello che sta avvenendo. Piuttosto che osservare il virus come un acerrimo invisibile nemico, forse dovremmo iniziare a visualizzarlo alla stregua di un messaggero della Natura, la quale tramite lo stesso sta proclamando una ferita inflittale dall’ipertrofico e coercitivo dominio umano che ne ha compromesso ahimè lo stato di equilibrio. E partendo da questo mutamento di prospettiva, ciascuno potrebbe impegnarsi a intessere una relazione profonda e veritiera con la Natura all’insegna del rispetto e della tutela transitando dalla dimensione manifesta e visibile (viakta) a quella più interiore in dialogo con le nostre rispettive anime. Si traccerebbe così un percorso di interiorizzazione che M. Eliade ha denominato “en-stasi”, grazie al quale si dimora nell’intima unione tra il proprio sé e il divino.
Si sottolinea come tale processo che permea un viaggio interiore ad originem, possa accompagnare quel viaggio di ritorno verso un momento iniziale inteso come l’incipit delle nostre afflizioni, descritto nel sutra II.10 “Te pratiprasava-heya Suksmah”. In tale verso Patanjali afferma come le afflizioni – i Klesha – più sottili possano essere eliminate riconducendole alla loro causa; il termine Pratiprasava indica quella traiettoria che ripercorre a ritroso l’origine delle afflizioni…

Tornando al tema della mutata percezione del virus, mi piacerebbe condividere con voi l’idea di promuovere un incontro luminoso e folgorante con la Natura, attuando una meravigliosa contemplazione della stessa. i.e., riuscire ad “Essere e ad Esistere” in uno stato di quiete immersi nella Natura, uscendo dall’imperante pensiero concettuale.
Riusciremmo così a cimentarci in degli affascinanti esercizi quali ad esempio l’assorbire e l’interiorizzare l’essenza di una roccia, di una quercia e/o di un cerbiatto, riposando profondamente nell’Essere che permea tutti gli esseri, liberandoci dall’egoità (ahamkara). E/o potremmo orientare la nostra consapevolezza verso i suoni sottili della Natura – il fruscio delle foglie accarezzate dal vento, le gocce di pioggia che dolcemente incontrano le gocce di rugiada, il sinfonico cinguettio di un uccellino all’alba. Immergendoci completamente nell’ascolto, forse scopriremmo come al di là del suono esista una sacralità la quale non coglibile dal pensiero è karmicamente depositaria di un atto di contemplazione…

Ripensiamo alla radice etimologica latina della parola contemplazione cum templum, che designa “l’essere nel tempio” laddove “templum” non solo indica il tempio sacro consacrato al culto di una divinità, ma anche uno spazio sacro appartenente all’immensa volta celeste. La contemplazione delle stelle e delle costellazioni presente sin dai tempi più antichi per delineare una rotta nei lunghi e audaci viaggi compiuti per terra e per mare, donava e dona ancora all’uomo la possibilità di scorgersi e di riconoscersi nell’immensa gerarchia cosmica individuando il proprio tempio interiore.
Già Platone considerava la contemplazione il momento più alto dell’esistenza, in virtù del quale attingendo dalle idee, dagli archetipi del mondo sensibile, l’umanità riusciva a ritrovarsi in prossimità della propria origine.
Il concetto platonico di contemplazione fu poi sviluppato da Plotino il quale nelle Enneadi ne accentuò il carattere mistico; ho scelto di riportare alcuni luminosi versi di questa opera:

Pensa a una sorgente che non si distingua dalla sua origine e che si doni a tutti i fiumi, senza che si lasci impoverire da questi; essa rimane stabilmente nella sua integrità, mentre i fiumi che ne sgorgano, prima di imboccare il proprio corso, quando ancora sono tutti insieme, per così dire, già conoscono, uno per uno,
la direzione della propria corrente. Oppure, pensa alla vita di un albero immenso, che è dovunque diffusa, ma che non perde il suo carattere di principio, né si dissipa del tutto, restando ben fondata alla sua radice.
È appunto a questo principio che si deve tutta la vita dell’albero nella sua esuberanza, ma esso resta integro, perché non è molteplice, ma principio della molteplicità”.

 Nei versi III.1 e III.2 degli Yoga Sutra, la concentrazione Dharana viene definita come un flusso di coscienza orientato all’immagine di un oggetto; quando tale flusso diviene costante e continuo scorrendo senza interruzione, eka-tanata, si esperisce la meditazione altresì inducendo uno stato contemplativo. Contemplando la Natura, rilasciando le categorie concettuali associate alla stessa, si può pervenire alla natura dell’Anima, sperimentando delle forme di realizzazione interiore.

Condivido con voi un famoso aneddoto in cui si narra di quando sant’Agostino, mentre camminava lungo una spiaggia assorto nei suoi profondi pensieri, incontrò un bambino che con una ciotola riversava l’acqua del mare dentro una piccola buca scavata nella sabbia. Alla domanda del Santo che gli chiedeva cosa stesse facendo, il bambino rispose che desiderava riversare tutta l’acqua del mare dentro quella piccola buca. Sant’Agostino si rivolse al bambino dicendogli che quella piccola buca non poteva di certo contenere tutta l’acqua del mare. Il bambino gli rispose che se fosse stato davvero così, allora nemmeno lui in qualità di santo avrebbe mai potuto comprendere i grandi misteri del creato; la sua mente altro non era che una piccola buca posta di fronte all’immensità del mare…

Prodighiamoci in numerosi e affascinanti esercizi di contemplazione della Natura.
Ritroviamo un frammento di divino racchiuso nel terzo occhio e ci sentiremo finalmente a casa, riscaldati dall’intimo e caloroso focolare del nostro tempio sacro in cui si animano le nostre essenze impregnate della stessa energheia che pervade l’universo intero…
Forse scorgeremo quella agostiniana piccola ciotola di acqua di mare, finalmente racchiusa dentro di noi!

“Il principio, infatti, non si suddivide in parti nel tutto, perché, se così facesse, distruggerebbe anche il tutto, che non potrebbe più esistere, se il principio stesso non rimanesse identico nella sua propria diversità.
Ecco perché ogni elevazione, in qualsiasi caso, avviene in direzione dell’Uno.” Enneadi III 8, 10

In quella sacra interconnessione con l’infinito e con Dio, riusciremo ad emanciparci dalle paure associate al Covid, dalle abitudini cristallizzate e dall’autocommiserazione, promuovendo un salutare ritorno allo Yoga dell’Azione che conduce alla contemplazione della verità come magistralmente insegnano gli straordinari versi della Bhagavad Gita!

Hari Om Tat Sat

Gaia

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Desidero dedicare la Newsletter di Settembre a Parinamah, un affascinante termine sanscrito al quale viene associato il significato di cambiamento e/o di mutamento.
Come già sottolineato nelle precedenti Newsletters, i Sutra di Patanjali costituiscono un caleidoscopico substrato conoscitivo, aiutandoci nella riflessione e nella generazione di commenti e di riflessioni.
In particolare nel verso YS III.13 Patanjali asserisce che ”il mutamento degli stati mentali può essere classificato secondo dharma, laksana e avastha”.
La parola polisemantica Dharma, nell’ambito dei sutra commentati da Vyasa, designa le qualità di uno specifico stato mentale e/o di un determinato oggetto conoscitivo; laksana e avastha indicano i rispettivi stati temporali (presente, passato e futuro) e le condizioni caratterizzanti tali stati mentali e/o oggetti conoscitivi. Per comprendere meglio quanto espresso, a titolo esemplificativo si prenda in considerazione un vaso; in particolare:

  • Dharma si riferisce al vaso il quale allo stato potenziale si trova nell’argilla;
  • Laksana si riferisce al vaso che può esistere nel presente e/o può essere esistito nel passato e/o esisterà nel futuro;
  • Avastha si riferisce ad un vaso in buone o cattive condizioni.

Il complesso tema del mutamento è strettamente intrecciato come un nastro di Moebius, con la teoria satkaryavada la quale risulta condivisa sia dallo Yoga che dal Samkhya, due delle sei scuole filosofiche indiane, chiamate Darshana. Darshana allude a quella visione della realtà, fenomenica e divina, che i saggi e gli asceti hanno conseguito grazie alla rispettiva disciplina spirituale e contemplativa.
Secondo la teoria satkaryavada, poiché ogni effetto è già presente all’interno della propria causa, la realtà manifesta risulta essere semplicemente una trasformazione della causa ultima, che funge da substrato eterno e omnicomprensivo. Tale substrato viene denominato dharmin.
Mi scuso se nel paragrafo successivo enfatizzo dei concetti comprensibili solo da coloro i quali hanno approfondito il Samkhya e l’opera Samkhyakarika di Ishvarakrishna, all’interno della quale nel verso IX, si legge appunto che la causa incorpora l’effetto; mi ricongiungerò poi immediatamente al fil rouge che sottende la Newsletter senza richiedere delle specifiche competenze in materia ma solo il vostro interesse (spero) ed intuito.
Gli studiosi del Samkhya riconosceranno nella prakrti e nella sua configurazione espressiva rappresentata dai guna, il substrato dharmin. L’immagine del movimento costante caratterizzante i guna induce a riflettere sulla natura intrinseca della realtà fisica e psichica; in particolare, quella natura si identifica con il continuo processo di cambiamento e il mutamento si riferisce alla variazione delle qualità, delle condizioni e degli stati di prakrti. Un albero di mele può giungere al termine del proprio ciclo vitale dissolvendosi nella prakrti, per poi riapparire, alimentando una nuova nascita e assumendo le peculiarità di un albero di pere e/o di albicocche…

Il filosofo Surendranath Dasgupta, all’interno della sua celebre opera, The History of Indian Philosophy, (1922, pag. 257) afferma:
La produzione degli effetti corrisponde solo ad un cambiamento interno dell’ordine degli atomi (anu) nella causa e questo è insito in forma potenziale; così è sufficiente un piccolo allentamento delle barriere che avevano ostacolato il verificarsi di tale cambiamento o ri-arrangiamento perché si verifichi il nuovo ordine – l’effetto. Tale dottrina è definita come satkaryavada, termine grazie al quale si deduce che karya o effetto è sat ovvero esistente anche prima che inizi l’operazione che lo causerà…”.
Si osserva come secondo due ulteriori scuole filosofiche Darshana, Nyaya e Vaiseshika, l’effetto non risulta dimorare in un unico e onnipervadente substrato; esso si manifesta in un insieme di cause multiple e separate. La teoria satkaryavada si discosta inoltre dal buddismo di Vasubandhu (Abhidharmakosa-bhasya, V d.c.) e da altre correnti buddiste secondo le quali non sussiste alcun substrato ultimo, eterno ed autonomo che pervade gli stati temporali della realtà manifesta. Quest’ultima appare come un flusso di momenti transitori e al tempo stesso interdipendenti, nella quale si può assistere ad un processo di cambiamento che impatta le qualità, gli stati e le condizioni, senza tuttavia presupporre l’esistenza di un dharmin.

Alla luce di quanto espresso, è interessante sottolineare come la teoria satkaryavada si avvicini all’impianto filosofico dell’eleate Parmenide, secondo il quale è impossibile implementare una “creatio ex nihilo”, poiché è impossibile transitare dal non essere all’essere. Nel celebre poema “Sulla Natura” Parmenide affermando l’impossibilità del non-essere, reinterpreta il mondo fenomenico alla luce di tale asserzione; non nega la realtà delle entità che divengono, ma esclude l’implicazione del non-essere.
Tale prospettiva permea anche la Chandogya Upanishad, nei cui versi 6.2.1 e 6.2.2 si celebra l’unitarietà dell’Essere senza la contemplazione di uno stato di Non Essere; e si ritrova anche all’interno della Svetasvatara Upanishad, nei cui versi 1.15 e 1.16 viene descritto l’Atman onnipervadente: “Come l’olio nei semi di sesamo, il burro chiarificato nel caglio, l’acqua nei rivoli che scorrono sottoterra e il fuoco negli arani, così quell’Atman viene realizzato da colui il quale lo percepisce grazie alla verità e tramite l’ascesi”.

Si citano infine due versi significativi del quarto Capitolo degli Yoga Sutra, nei quali la metafisica di Patanjali appare quanto mai profonda e ispiratrice, alla luce di quanto sottolineato.
YSIV:11: Hetu phala ashraya alambanaih sangrihitatvat esham abhave tad abhavah
 “Essendo le azioni e le conseguenze i principi del karma, legate insieme, in quanto causa e effetto, gli effetti svaniscono allorché scompaiono le cause”.
YSIV:12. atita anagatam svarupato ‘sti adhvabhedad dharmanam
“Passato e futuro esistono nel presente, tuttavia non sono sperimentati nel presente in quanto sussistono su piani diversi”.
La teoria Satkaryavada permea i samskara e gli stati temporali. I samskara vengono resi obsoleti e improduttivi nel momento in cui la loro matrice causale costituita dalla mente, dalla motivazione e dall’oggetto di consapevolezza viene meno. Il passato e il futuro esistono nel presente non come entità separate da quest’ultimo, ma sotto forma di presenza latente…

Per qualche istante proviamo a chiudere i nostri occhi e ad immaginarci nell’atto di compiere la nostra amata pratica yogica quotidiana. Alla luce della teoria Satkaryavada, forse potremmo osservarci nell’atto di esplicitare delle intenzioni latenti, auspicabilmente in linea con l’ottuplice sentiero di liberazione Ashtanga, già sedimentate in delle ancestrali e primordiali fondamenta spirituali che di volta in volta possono scegliere se manifestarsi nella danza ritmica delle asana e/o del respiro…e/o rimanere latenti e silenziose ma pur sempre vive e presenti nella sadhana.

  Hari Om Tat Sat

Gaia

Lo Yoga e l'infinitum

Desidero dedicare la Newsletter di Giugno ai temi dell’Infinito e del legame tra quest’ultimo e l’essere umano. Tale legame fa risuonare nella mia mente e nel mio cuore – e spero nei vostri – uno dei significati della radice etimologica juj della parola yoga, ovvero l’atto di unire.
Credo noi praticanti abbiamo potuto sperimentare direttamente o indirettamente come la disciplina yogica possa contribuire ad alimentare un dialogo profondo con talune tematiche esistenziali che permeano il nostro divenire karmico. Essa ci invita ad esplorare gli aspetti peculiari di tale processo in relazione e alla luce della nostra volontà di intraprendere un percorso di realizzazione spirituale. Ed ecco che la costruzione di un legame con l’ente divino originario e/o con Ishta Devata, termine utilizzato da Patanjali nel verso II.44 per descrivere una sua personificazione e auspicata manifestazione, diviene l’elemento costitutivo di una nostra armonizzazione con l’Infinito e le sue forme. Non trattasi di un ossimoro: anche l’Infinito può delinearsi ed essere reso più tangibile attraverso delle forme…certo esse stesse sono spiritualmente elevate e pertanto coglibili coltivando i nostri esercizi spirituali!
Il percepire la propria natura transitoria ma al tempo stesso l’attitudine, bhavana, a connettersi al divino, può donare una dimensione più profonda e creativa alle proprie azioni, alimentando la propagazione e la trasmissione di flussi benefici e salutari sia a livello fisico-psichico, sia a livello più eminentemente spirituale. La triade corpo-apparato mentale-spirito, sthula sharira-chitta-atman, si ripropone in tutte le sue caleidoscopiche manifestazioni. Man mano che ci si incammina lungo il sentiero meditativo, al di là del vissuto manifesto – viakta – l’anima appare visibile e riconoscibile in quel sacro tempio interiore sorretto dalla fede. Potrebbe emergere in tutta la sua poetica e sublime configurazione come un fior di loto dai mille petali candidi e delicati nella rispettiva purezza. Tale immagine potrebbe rappresentare una icona verso la quale indirizzare la nostra concentrazione, alimentando un flusso di attenzione costante che disidentificandosi dall’apparato mentale sfocia nella pura meditazione.
Come sottolineava Jung nel testo Ricordi, Sogni e Riflessioni, la domanda fondamentale per l’uomo è se egli sia rivolto o meno all’Infinito: “Se riusciamo a capire e a sentire che già in questa vita abbiamo un legame con l’infinito, i nostri desideri e i nostri atteggiamenti mutano; la coscienza degli angusti confini del proprio Sé costituisce l’infinità dell’inconscio”.
Jung approfondendo lo gnosticismo, aveva inoltre sottolineato come i suoi rappresentanti anelassero ad un Dio luminoso, fautore di una realtà ultima al di là dell’esistenza terrena in cui le anime erano state “intrappolate”. Gli gnostici asserivano che la scintilla luminosa, “pneuma”, un tempo si era separata dalla pienezza, “pleroma”.

Il nucleo originario dell’Infinito se esperito come yoga, inteso come strumento propedeutico ad instaurare una liaison con il divino, ci spinge alla sperimentazione di una veritiera interconnessione, la quale può proporsi in tutte le sue potenzialità diventando una pragmatica alternativa alla civiltà della disgiunzione. L’interconnessione alla quale lo yoga ci sensibilizza, diventa il catalizzatore per intraprendere un dialogo interiore sempre più profondo, rendendoci al tempo stesso più inclini ad accogliere empaticamente i vissuti emotivi degli altri con cui si possono instaurare delle forme di comunicazione poliedriche. Impariamo a condividere il linguaggio del respiro praticando vicini sui rispettivi tappetini, dopo esserci cimentati in alcune asana o tecniche di pranayama, e interiorizziamo la nostra e altrui serenità nelle fasi di savasana.
Dal mondo intrapsichico ci si incammina pertanto verso il mondo interpersonale, ripercorrendo tra l’altro i passi evolutivi seguiti dalle correnti psicoanalitiche nell’arco degli ultimi cento anni, partendo dalle concezioni kleiniane unipersonali per poi incontrare le più recenti correnti intersoggettive e relazionali. Nella straordinaria visione, darsana, che ci assiste nell’iter di ricongiungimento con l’Infinito, assumiamo delle lenti innovative, le quali conducono il cartesianesimo verso il superamento della sequenzialità causa-effetto, tendendo ad un principio di finalità.

All’interno di tale cornice semantica, ispirante appare la Katha Upanisad, nella quale si narra il viaggio ultra-mondano del giovane Naciketas in dialogo con il dio dell’oltretomba Yama, il quale rivela al fanciullo la presenza dell’eterno atman in ogni creatura umana ed il destino dell’anima dopo la morte. Nel verso 11 del secondo capitolo adhyaya, all’interno del terzo valli o sezione, lo Yoga descritto come stabile concentrazione dei sensi – indriya-dharana – viene accompagnato da due ulteriori celebri termini, prabhava e apyaya, che designano rispettivamente il principio e la fine. Lo Yoga è “il venire in essere ed il cessare; è il sorgere ed il tramontare; conduce alla scoperta del vero Sé e al tempo stesso alla rimozione del Sé accessorio”.
Il sorgere e il tramontare, rievocano una infinita beatitudine che emerge in tutta la sua polifonica presenza nell’incontro tra l’alba e il tramonto, in quella metafisica trasposizione dell’essere anadi e ananta, senza inizio e senza fine. In tale universo si possono attribuire dei nuovi significati alla propria esistenza, nel progressivo ricongiungimento con il divino, contemplando la trasmigrazione delle anime, chiamata dai filosofi pre-socratici metempsicosi.

Entrare in sintonizzazione con il pleuma dell’universo, intraprendendo un processo junghiano di individuazione, può renderci protagonisti di una straordinaria favola a cui possiamo attribuire il titolo di “sintropia”, ovvero quell’ordine cosmico armonico a cui tutti tendiamo.
Le asana e le tecniche di pranayama, in veste di metafore delle esperienze di vita che impregnano i nostri vissuti, ci donano l’opportunità di entrare in contatto con i primi due principi della termodinamica: l’indistruttibilità dell’energia la quale si conserva trasformandosi e la sua distribuzione che segue una direzione irreversibile dal corpo più caldo a quello meno caldo.  Incontriamo così l’entropia, ovvero con quella “inesorabile tendenza a-simmetrica dell’universo verso una progressiva distribuzione omogenea dell’energia in direzione dell’equilibrio termico finale”. Al tempo stesso, se accresciamo la nostra volontà di congiungerci all’Infinito, affiniamo l’arte di esperire un insieme di isole neghentropiche che emergono dall’oceano entropico; ordine e caos imparano a dialogare, respirare insieme, co-abitare e co-esistere. Gli opposti si fondono e nuove realizzazioni prendono atto, libere dalle interferenze egoiche che portano all’identificazione con il transeunte, l’impermanente e/o il caduco.
L’atteggiamento sin-tropico si allea così con la sin-tonizzazione e la sin-cronicità andando a costituire i fondamenti delle mappe esistenziali della rotta ad Infinitum, quella stessa rotta che ha ispirato il fisico Pauli inducendo Jung a pubblicare nell’opera scritta a quattro mani
L’interpretazione della natura e della psiche”, l’articolo “Sincronicità: un principio di corrispondenza acausale”.
Il maestro Marco Ferrini, Matsyavatara Das, spesso ripete che “la vita è un viaggio, il mezzo è la conoscenza e il fine è l’Amore e la realizzazione spirituale, la quale raramente si ottiene in una sola vita”.
Nel verso VII.19 della Bhagavad Gita, Krishna afferma: “Dopo molte nascite e morti, chi è situato nella vera conoscenza si abbandona a me”. Tali parole, fungono da substrato alla infinita speculazione vedica, come infinita dovrebbe essere la nostra attitudine esploratrice verso la destrutturazione dei condizionamenti, ad infinitum accompagnandoci verso la nostra origine divina.

Hari Om Tat Sat
Gaia

Desidero dedicare la Newsletter di Maggio ad uno speciale albero, l’albero cosmico, in sanscrito Aśvattha, (fico strangolatore – Ficus Religiosa e/o baniano – Ficus Indica), il cui simbolismo di natura cosmica e vitalistica è stato approfondito sin dalla seconda metà dell’800 in svariegati ambiti religiosi e culturali. Siddharta Gautama ricevette l’illuminazione ai piedi di questo albero (chimato di Bodhi) a Bodh Gaya, nell’odierno stato del Bihar.
Aśvattha identifica un albero rovesciato, rappresentazione allegorica del Brahman. Le sue radici sono in alto, protraendosi verso tutto ciò che non è manifesto, aviakta, mentre i suoi rami sono rivolti verso il mondo fenomenico. In particolare, lo si ritrova con tale attributo semantico all’interno di due Upanisad, Katha e Maitrī:

Katha Upanisad, 6.1:
“Questo aśvattha perenne ha le radici in alto e i rami in basso.
Esso solo è brillante/splendente, esso è il Brahman, esso solo è chiamato immortale.
Su di esso si fondano tutti i mondi e nessuno mai lo supera. [Ecco] questo è invero quello!”
Maitrī Upanisad, 6.4,
“Il supremo Brahman con i suoi tre piedi ha le sue radici rivolte verso il cielo i suoi rami sono l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua, la terra e il resto. Questo Brahman si chiama Uno, Aśvattha e il suo splendore è sole lassù e quello stesso della sillaba Om.”

Interessante sottolineare come anche Platone nel Timeo, presenti l’immagine dell’albero rovesciato, isomorfico con le parti del corpo umano eretto. La capigliatura umana corrisponde alle radici; i piedi corrispondono alla chioma arborea. Platone scrivendo che la parte dell’anima più elevata risiede nella parte superiore del corpo, equiparata alle radici di una pianta celeste, sembrerebbe rielaborare e trasmettere alcuni principi upanisadici, confermando l’ipotesi di una sapienza indoeuropea formatasi anteriormente all’etnogenesi dei popoli ellenici.

All’interno del capitolo XV della Bhagavad Gita, 15.1-5, riappare l’albero eterno:
“Krishna disse: Si dice che c’è un albero eterno, Aśvattha le cui radici sono in alto e i rami verso il basso, le cui foglie sono canzoni sacre e colui che le conosce, conosce i Veda. I rami di tale albero si estendono sia verso l’alto che verso il basso; si sviluppa tramite le tre guna e i suoi germogli sono i vari; le sue radici si diffondono anche verso il basso dando così origine alle azioni nel mondo degli umani. Che il saggio recida con la affilata spada del distacco questo albero così fortemente attaccato dalle radici, e cerchi quel sentiero del non ritorno, cercando rifugio da quello Spirito Eterno da cui il corso della creazione ha avuto origine”.
Tra le varie interpretazioni attribuite ai versi relativi alla recisione dell’albero, in questa sede si annovera quella secondo cui la determinazione e il distacco sono necessari per superare gli attaccamenti terreni, incamminandosi verso la conoscenza del Purusha supremo, il Purushottama.

 Date queste premesse, capiamo quanto Aśvattha sia intimamente legato alla vita dei praticanti di yoga. I suoi connotati semantici e simbolici, possono ispirarci nell’atto di rinascere come degli arbusti le cui radici attingono dalle vette più alte della coscienza spirituale, pur riconoscendo un substrato materico con cui eminentemente interagiamo seguendo le leggi karmiche.
La postura vrksasana, diventa un trait d’union tra la manifestazione prakritica dell’esistenza e la capacità di trascenderla, indirizzando le nostre visioni, Darsana, verso nuove vette dell’empireo ciel.
L’albero si colloca in uno sfondo di fioritura meravigliosa, contraddistinto dalla “viriditas”, il verdeggiare primaverile, che già dalla fine di Marzo, ha risvegliato le nostre attitudini, rendendo manifeste le potenzialità più recondite e nascoste.
La radice etimologica vir appare nel termine sanscrito virat, che denota l’eroe; appare anche nel termine sanscrito virabadrasana, che indica l’asana del guerriero, auspicabilmente svolta personificando l’attitudine di un eroe spirituale!

Per libera associazione, tendo a visualizzare tutti noi, alla stregua di veri e propri eroi, virat, nell’atto di affrontare l’emergenza del COVID-19, coniugando le nostre azioni con gli Yama e i Niyama.
Ci ritroviamo così immersi nel colore trasformativo per eccellenza, il verde, il quale accompagna l’incipit vitale espresso dalla Primavera, al tempo stesso permeando il meraviglioso albero Aśvattha, nonchè la nostra capacità di evolverci alla stregua di arbusti spirituali!

Hari Om Tat Sat
Gaia

STHITI NIRODHA – Dimoriamo nella sospensione!

L’Essere danzante è sospeso tra la terra e l’etere nutrito dall’immensità del processo di creazione, di trasformazione e di rinascita dopo la morte.

L’Essere itinerante è sospeso tra la pienezza e il vuoto, il vuoto e la pienezza.

L’Essere riflessivo è sospeso nella riconciliazione degli opposti.

L’Essere in sintonia con l’affetto materno rimane sospeso nel grembo dell’Anima Mundi.

Il suo sguardo nutrito dalla speranza è sospeso tra l’infinito oceano e l’empireo ciel. L’Essere spirituale è sospeso nella celebrazione del pranava Om!

 

Il mese di Marzo e quelli successivi del 2020 resteranno impressi nella nostra memoria, nelle nostre riflessioni e nei nostri sogni. L’intera umanità ha dovuto fronteggiare un evento inimmaginabile e totalmente imprevedibile con un forte impatto traumatico e al tempo stesso trasformativo sui nostri vissuti consci e inconsci.
L’arte di apprendere in tali momenti interstiziali dell’esistenza è quanto mai preziosa; forse uno dei doni incommensurabili attribuitici nell’epoca del Covid-19.
Stiamo vivendo uno stato di Sospensione e di simil-rarefazione.
Molti impegni quotidiani che rientravano all’interno di un’agenda meccanicistica sono venuti meno pur non essendo terminata l’attività lavorativa che con creatività stiamo re-inventando e/o ridimensionando, mettendo in atto un incredibile spirito di adattamento. Ci siamo dovuti impegnare a gestire l’imprevisto, improvvisandoci esperti di tecnologie informatiche a distanza e/o diventando conoscitori dei poteri di connessione della fibra vis a vis l’ADSL, piuttosto che del direct streaming, e/o rispettando le distanze di scurezza negli spazi pubblici.
La praxis e l’evoluzione hanno continuato a permeare le nostre vite, donando loro un attributo di dinamicità; al tempo stesso un substrato fermo e statico le ha caratterizzate. Quel substrato di auto-riflessione e di introspezione che induce ad auto-osservarsi e ad interrogarsi in merito alle proprie scelte, invitando ogni individuo a dialogare con una propria ricerca interiore la quale può espandersi in una vera e propria vocatio spirituale.
Ed ecco riapparire il termine Sospensione il quale ha donato il titolo alla newsletter. Esso trae la propria ispirazione dal termine sanscrito Nirodha, che appare in alcuni versi degli Yoga Sutra di Patanjali (I.2, I.12, I.51, III.9).
In particolare Patanjali ci insegna come lo Yoga conduce all’armonizzazione e alla sospensione delle fluttuazioni mentali (Chitta Vrtti Nirodha, I.2). La radice verbale vrt significa ruotare, procedere, muoversi ed evidenzia l’aspetto della mente perennemente attiva, causale e divagante. Grazie alla concentrazione, l’aspetto sattvico si manifesta attribuendo alla mente la facoltà discriminativa ovvero la capacità di distinguere Purusa, l’anima pura ed eterna, da Prakrti, la matrice materiale primordiale dell’universo fisico.
Patanjali identifica due strumenti essenziali per attuare il controllo delle turbolenze mentali: Abhyasa, ovvero la pratica costante e Vairagya, ovvero il distacco (Abhyasa Vairagyabhyam Tan-Nirodha, 1.12). Krishna, nel capitolo VI, verso 35 della Bhagavad Gita ammonisce Arjuna “La mente è indubbiamente volubile e difficile da domare o Arjuna, ma può essere controllata con Abhyasa e Vairagya”.
Pensiamo seriamente alla opportunità di trasformare lo stato di Sospensione che stiamo vivendo, ad uno spazio sacro in cui possiamo dedicare dei brevi ma significativi frammenti di tempo alla concentrazione propedeutica per delle vere e proprie fasi meditative. In tal modo seguendo i suggerimenti patanjaliani, possiamo renderci protagonisti di un processo di arresto di rimuginii, di pensieri ossessivi e/o tossici che possono opprimerci e renderci sempre più vulnerabili a malattie fisiche, mentali e dello spirito.
E’ sufficiente soffermarsi, fermarsi, sedersi, chiudere gli occhi, portare l’attenzione alla respirazione, sentire i battiti del proprio cuore, immaginarsi alla stregua di frammenti di una luce cosmica infinita.
Il Nirodha torna ad accompagnarci in prossimità della fine del percorso yogico, nel quale si manifesta il Nirbija Samadhi (I.51), ovvero la immersione meditativa senza seme, totalmente avulsa da ogni funzione mentale e razionale.
Grazie alla soppressione degli ultimi samskara, i Nirodha Samskara, ogni pensiero è latente; l’uomo si ricongiunge con Dio e l’immersione non mediata del Purusa nella sua natura eterna ed essenziale è raggiunta.

Dimoriamo in Nirodha e immergiamoci nella Concentrazione e nella Meditazione! Riscopriremo con fervore e audacia la nostra spiritualità!

Hari Om Tat Sat
Gaia

Mi accingo a scrivere la newsletter di Febbraio lasciando che i versi di Patanjali ispirino il nostro operato e le nostre riflessioni; in particolare sono lieta di condividere con voi il primo sutra del Sadhana Pada: Tapah Svadyaya Ishwara Pranidhana-ni che viene generalmente tradotto nel seguente modo: “Gli elementi costitutivi della pratica yogica sono: la disciplina ascetica, lo studio individuale dei testi sacri e l’abbandono a Dio”.

 La lettura e la pronuncia delle lettere sanscrite dona ancora più sacralità all’eminente contenuto spirituale racchiuso nel termine “Tapah” che designa l’ARDORE e l’IMPEGNO ASCETICO, “Svadhyaya” che indica lo STUDIO INDIVIDUALE, e “Ishwara Pranidhana” che si riferisce alla sublime ARRENDEVOLEZZA AL DIVINO.
In particolare, desidero portare la vostra attenzione a Svadhyaya, ovvero a quello spazio straordinariamente tangibile e trascendente al tempo stesso, che ciascuno può dedicare allo studio di alcuni testi yogici quali la Bhagavad Gita, gli Yoga Sutra e/o l’Hatha Yoga Pradipika.
Trattasi di uno spazio sacro nel quale automaticamente e quasi per incanto Tapah e Ishwara Pranidhana confluiscono prendendosi per mano. Quando ci impegnamo a trascorrere dei piccoli, brevi ma significativi frammenti di tempo racchiusi nelle nostre riflessioni ispirati dai libri sacri, viviamo in una sospensione alchemica nella quale i ricami scenografici iniziano a decorare il nostro operato di studiosi che approfondiscono e si interrogano… Un senso di libertà esploratrice ci pervade, sollecitandoci a scoprire ulteriormente i tasselli teorici della spiritualità, la quale può apparire assumendo dei contorni più nitidi sotto forma di Ricordi, e/oppure di Sogni e/oppure di Riflessioni – prendo a prestito a tal proposito il titolo del capolavoro autobiografico junghiano!
L’essere in tale “topos” introspettivo di lettura e di analisi che eminentemente conduce ad una auto-analisi ci permette di registrare i diversi codici interpretativi dell’esistenza; uno forse più razionale-verbale e manifesto seguito e accompagnato da un altro più misterioso e intimamente legato all’inconscio il quale se coccolato e interrogato senza alcuna intenzionale velleità di farlo, può trasmettere sorprendenti rivelazioni.
Tali rivelazioni amplificano il proprio spessore spirituale nel momento in cui accolgono le rivelazioni dei libri sacri e al tempo stesso vengono accolte dalle stesse, edificando un vero e proprio tempio in cui ANIMUS E ANIMA si fondono…un tempio in cui Brahma, Vishnu e Shiva appaiono come dei bimbi i quali giocando con spensieratezza ed entusiasmo, Krishna affascina l’intera umanità e al tempo stesso dona affetto incommensurabile ad Arjuna , i nostri interrogativi pur non ricevendo una risposta immediata si sentono appagati dalla possibilità di forgiare nuove costellazioni speculative…le auto-realizzazioni appaiono in tutto il loro fulgido compimento che diviene al tempo stesso equivalente ad un non compimento…le attività dell’immaginazione oltre ad alimentare i processi mentali confluiscono in dei veri e propri processi spirituali, scorrendo nei due fiumi sacri Ganga e Yamuna
Impegnamoci vicendevolmente a leggere, approfondire, non stancarci mai di connetterci al divino con ARDORE spirituale…lasciando che la volontà forgiante il nostro destino karmico sia ispirata da quello STUDIO che solo apparentemente è individuale…Trattasi infatti di uno STUDIO il quale ci permette di rinascere come l’espressione dell’UNIVERSO SACRO in cui “Beata e Sola Solitudo diviene Beata e not Sola Multitudo”.
Non dimentichiamoci che dopo tutto siamo delle Scintille divinamente protagoniste di quelle fraterne trame intrise di reciprocità e di interconnessioni le quali con responsabilità dobbiamo contribuire a tessere nella nostra straordinaria ricerca interiore!

Hari Om Tat Sat
Gaia

Nel sacro e santo Natale
offriamo simbolicamente
la nostra pratica yogica dipinta d’oro,
le nostre preghiere profumate di incenso,
i nostri sacrifici cosparsi di mirra
alla magnifica Stella di Betlemme!

Mi accingo a scrivere la newsletter di Dicembre invitando tutti noi a rivolgere gli occhi al cielo e ad intraprendere un viaggio alla ricerca della Stella di Betlemme, riflettendo in merito alla salienza di quegli attimi della nostra vita in cui riusciamo a cogliere e a vivere la presenza dei nostri maestri spirituali.

Spesso ci ritroviamo geograficamente lontani dai luoghi dove abbiamo inaugurato un processo di catarsi senza essere in grado di preservarlo nella vita quotidiana; coloro che ci hanno aiutato ad incamminarci lungo il sentiero dell’autoconsapevolezza non sono più fisicamente presenti…a volte ci sentiamo soli e smarriti proprio come Dante prima del suo incontro con Virgilio “O de li altri poeti onore e lume, vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore che m’ha fatto cercar lo tuo volume…

In che modo lo Yoga può supportarci e guidarci in tali momenti?

Attraverso l’autodisciplina e la perseveranza nella pratica arricchita dall’ascolto della propria voce interiore che ci indirizza verso l’unione tra il corpo, la mente e lo spirito.

Ciascuno può iniziare la propria sessione di Yoga scegliendo delle posture confortevoli (sukkhasana, siddhasana e/o loto), concentrandosi sul suono della respirazione e pronunciando mentalmente So durante l’inspirazione Hum durante l’espirazione, rendendo più intima l’atmosfera grazie all’utilizzo di incensi e candele. Si può continuare a immergersi in tale sinfonia e/o iniziare le asana concludendo il ciclo con degli esercizi di pranayama, seguiti dalla fase di savasana (rilassamento) e da una sessione dedicata alla meditazione.

Si possono chiudere gli occhi sintonizzandoli con gli occhi di coloro che ci hanno insegnato a vivere e a fronteggiare la vita secondo i principi etici degli yama e dei niyama.

L’arte della visualizzazione viene trasmutata in azione grazie al drishti (sguardo) che ci guida durante le classi di Yoga; l’”azione-intenzione” di connetterci ai nostri maestri spirituali si cristallizza in uno sguardo profondo che può ulteriormente elevarsi orientandosi al Kutashta Chaitanya, ovvero a quel sacro punto ubicato tra le due sopracciglia, sede degli strati di coscienza superiore.

Ispirata dal periodo natalizio che ci sta accompagnando, desidero condividere con voi la cara e familiare immagine dei re Magi – Melchiorre, Gaspare e Baldassarre – al cospetto della culla di Gesù; i doni dei re Magi simboleggiano il nutrimento spirituale offerto a tutti gli abitanti di Betlemme, città il cui significato letterale è “casa del pane”.  

I doni dei Magi mi portano a creare delle associazioni con quello straordinario impegno e quella consolidata audacia che spesso sottendono la nostra attitudine di praticanti yogici.

Tale substrato di impegno e di audacia rappresenta il nutrimento che può attivare dei nuovi cicli di ricerca interiore, in linea con il significato simbolico dell’oro, dell’incenso e della mirra.

Mi diletto a sognare ad occhi aperti (sperando mi seguiate in questa esperienza!) osservando i nostri maestri spirituali e/o le nostre guide i quali emettono delle voci limpide e delle onde sonore mistiche che attraverso un processo di metamorfosi vengono sublimate in una Stella, dolcemente rievocata da Pasternak e li accanto, sconosciuta prima d’allora, più modesta di un lucignolo alla finestrella di un capanno, tremava una stella sulla strada di Betlemme”.

 La meravigliosa Stella d’Oriente illumina coloro che le hanno rivolto la propria fede,
lasciandosi guidare dall’intuito più profondo.

La stella di Betlemme può aiutare gli yogi e le yogini a non lasciarsi sopraffare dall’oscurità delle afflizioni – klesha – descritte da Patanjali negli Yoga Sutra con ingegnosa maestria e senso pragmatico (Yoga Sutra II.3) che vengono così sintetizzate: avidya: ignoranza, asmita: illusione della personalità, raga: attaccamento, dvesa: avversione, abhinivesa: ostinazione vitale.  

Spesso rivolgiamo spasmodicamente l’attaccamento verso un luogo/persona sacro/sacra, e/o idolatrato/idolatrata.

Secondo gli insegnamenti dello Yoga, tale attaccamento deve essere trasformato e convertito nella convinzione di essere in grado di fortificare/incontrare quel luogo/persona ideale nel nostro cuore.

L’attaccamento nella letteratura psicologica viene spesso menzionato con riferimento alla teoria sviluppata da Bowlby in merito alla natura del legame tra il bambino e il proprio caregiver; a seconda che tale legame sia sicuro, insicuro evitante e/o resistente nei confronti/alla presenza del caregiver, si genera una trasmissione dello stesso codice di condotta tra la futura mamma e il suo bimbo, andando così ad attivare un circolo non sempre virtuoso a livello transgenerazionale. Spesso proprio in virtù di tale precoce attaccamento in una delle sue diverse declinazioni, non riusciamo a far riemergere l’autenticità di quel piccolo sé racchiuso in ciascuno di noi; l’anima individuale, la Jiva ahimè tace dimenticata negli abissi delle false auto-percezioni e ossessionanti rimuginii.

Immergendoci in immagini ispiranti e coinvolgenti sia esperite dal vivo quando siamo immersi nella natura, sia rievocate attraverso l’immaginazione e dedicando una pratica yogica a qualcuno, aiutiamo la nostra anima Jiva a ritrovare gradualmente il proprio spazio di espressione.

La voce dei maestri spirituali si alterna così a dei momenti di sacro silenzio in cui si attua la nostra rinascita interiore.

E in quell’attimo fuggente, colui o colei che sognano si rendono visibili a sé stessi, liberandosi dal velo di Maya…

 

Hari Om Tat Sat

Gaia & Hector

www.studioyogapsicologia.com 

Auguri luminosi a tutti voi! Lasciamoci guidare dalla Stella di Betlemme!

Studio Jyotir è lieto di invitarvi al Titksha Yoga Retreat che si svolgerà nel meraviglioso ed elegante complesso toscano del XIII secolo Ebbio, durante il ponte di Ognissanti (www.ebbio.it).

Circondati da secolari lecci e da una natura incontaminata, ci si immergerà in pratiche quotidiane di asana, pranayama, meditazione (da seduti e itinerante) e celebrazione di mantra.

Il nucleo tematico che sottende il seminario è Titiksha, ovvero l’arte di esperire la pazienza e la perseveranza nel proprio percorso di auto-consapevolezza. Radicandosi nei rispettivi tappetini, osservando il proprio respiro e armonizzando le fluttuazioni mentali attraverso la meditazione, si auspica si possa trasformare Titiksha in un principio vitale di creatività e di crescita interiore.

Le escursioni negli ameni dintorni toscani unite al suggestivo incontro con la natura e i dolci animali di Ebbio, faranno da sfondo al vostro soggiorno, allietato dalla genuinità di squisiti pasti realizzati con ingredienti locali.

In tale scenario di bellezza e di armonia, Titiksha provvederà a nutrire la vostra anima, accompagnandovi nella poesia del viaggio yogico.

Hari Om Tat Sat!

Programma Preliminare

Giovedì, 31 Ottobre

17:30-19:00: Vinyasa Dharma Yoga – Pratica introduttiva
20:00: Cena

Venerdì, 1 Novembre

Prima delle 8:00: risveglio con tisane e biscotti
8:00-8:45: Pranayama e Meditazione
9:00-11:00: Vinyasa Dharma Yoga Practice
11:30-13:30: Brunch
13:30-17:00: Escursioni e Attività libere
17:00-17:30: Meditazione itinerante
17:30-19:00: Vinyasa Yoga con focus sulle anche
19:00-19:15: Pranayama serale
19:30-21:00: Cena
Dopo le 21:00: Canto di Mantra/Approfondimenti teorici (facoltativo)

Sabato, 2 Novembre

Prima delle 8:00: risveglio con tisane e biscotti
8:00-8:45: Pranayama e Meditazione
9:00-11:00: Vinyasa Dharma Yoga Practice
11:30-13:30: Brunch
13:30-17:00: Escursioni e Attività libere
17:00-17:30: Meditazione itinerante
17:30-19:00: Vinyasa Yoga con focus back-bending
19:00-19:15: Pranayama serale
19:30-21:00: Cena
Dopo le 21:00: Canto di Mantra/Approfondimenti teorici (facoltativo)

Domenica, 3 Novembre

Prima delle 8:00: risveglio con tisane e biscotti
8:00-8:45: Pranayama e Meditazione
9:00-11:00: Vinyasa Dharma Yoga e Canto di Mantra
11:30-13:30: Brunch
Attività libere e Partenza

Per ulteriori delucidazioni, rivolgersi a:
gaia.sattva@gmail.com

Per informazioni in merito alle attività da svolgere, si clicchi su questo link:
www.ebbio.it/activities/

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